L’ASSOLUZIONE DI MARINO ED IL REFERENDUM.
Credo che ogni sincero “democratico” debba sentirsi contento della recente assoluzione dell’ex sindaco di Roma (nonché ex capolista per il Senato in Piemonte alle Politiche del 2013), perché comunque gli viene tolta un’accusa dai risvolti penali e quindi, ma non solo per questo, l’immagine sua personale (e del partito) non può che risentirne favorevolmente.
Purtroppo sono già scoppiate le polemiche, con il Nostro che ha già proclamato il suo “No” al referendum quasi come una rivincita nei confronto del Segretario Nazionale e Presidente del Consiglio, reo a suo dire di averne provocato deliberatamente la caduta dal ruolo di Primo Cittadino della Capitale. Difficile affermare oggi che, se fosse rimasto sindaco, Marino avrebbe fatto una dichiarazione di voto di contenuto diverso; l’uomo è stato persona da sempre non allineata rispetto alle “correnti tradizionali” del Pd, al punto di aver rappresentato lui stesso un riferimento per tanti nel partito, quando si votò per la Segreteria Nazionale che all’epoca andò poi a Bersani.
Io credo però che la pronta risposta dalla Segreteria Nazionale (nella persona di Luca Lotti) al suo “No”, oltre alle parole del sen. Stefano Esposito circa l’incapacità dimostrata nel governo della città di Roma, siano state più “di getto” che meditate. Che Ignazio Marino abbia commesso errori un po’ grossolani è vero (come quando disse di essere andato a Filadelfia perché invitato dal Papa, all’epoca in visita in quella città, salvo poi essere smentito clamorosamente dal Pontefice stesso; per non dire poi delle frequenti visite a New York, dal sindaco italo-americano De Blasio, mentre la gente si lamentava delle buche in strada), ma alcune cose come la pedonalizzazione dei Fori Imperiali, ed anche contro certe “prassi” consolidate nella gestione comunale le ha fatte, pur lavorando in condizioni non certo ottimali, in attesa com’era del Decreto su Roma Capitale che avrebbe dovuto portare ossigeno nelle casse cittadine.
Resta il fatto che lui è stato uno dei fondatori del Pd e che come tale “va recuperato”, vale a dire che, al di là della sua posizione referendaria, si dovrà trovare “a bocce ferme” un coinvolgimento nuovo (se vorrà), tenendo conto che trattasi di persona comunque di spessore, con un seguito tuttora non indifferente a Roma e non solo.
Al fondo però, come si intuisce, emerge ancora la questione referendaria che sta purtroppo lacerando il partito. C’è da dire, come notava Michele Ainis su “la Repubblica”, che per la prima volta nella storia politica recente un appuntamento riguardante temi costituzionali si celebri durante la stessa Legislatura nella quale viene proposto (per l’ultimo referendum a sfondo costituzionale, quello sull’art. V° nel 2006 infatti, nato sotto il governo Berlusconi, si votò in quella successiva, con Prodi da poco eletto premier); ciò vuol dire che immancabilmente l’argomento su cui esprimersi viene “identificato” come parte del programma del Governo in carica, motivo per cui chi non ama Renzi voterà “no” a prescindere, il contrario invece chi lo sostiene.
Del resto, a conferma di ciò, se tutti i fautori del “No” avessero “davvero” (non strumentalmente) a cuore la questione, potrebbero presentare “insieme” una loro proposta di riforma, renderla pubblica e dare quindi un significato “alto” al loro attuale dissenso. Ma siamo nel mondo dei sogni! Facile capire infatti quanto sia “radicalmente” diverso il “No” di Salvini o di Brunetta, rispetto a quelli di Zagrebelsky, di Onida, di Raniero La Valle (giornalista cattolico, già della Sinistra Indipendente negli anni ’70-’80), scusandomi con questi ultimi per il temporaneo accostamento…Ma forse è proprio qui il cuore del problema: la personalizzazione che l’attuale premier aveva dato di questo appuntamento, salvo smentirla successivamente, unita alla “fretta” di dover modificare la seconda parte della Costituzione, per accelerare il processo legislativo (evitando il ping pong tra Camera e Senato) e dare un preciso segnale all’Europa che sollecitava da tempo per l’Italia un rinnovamento al riguardo, si sta rivelando al momento una miscela che provocherà (nel Pd certamente) più di un sussulto e sul quale si giocheranno, temo, altre partite personali e non , al di là del merito del quesito stesso.
Credo infatti che la vera posta in gioco riguardi la “futura natura” del Pd, se diventerà cioè il Partito della Nazione (forse con Verdini, che ha già anticipato l’imminente ingresso nel Governo dal 5 dicembre col suo gruppo Ala) o se manterrà una connotazione più “di sinistra”, di una sinistra a forte impronta riformista (magari qualcuno sosterrà che il riformismo di sinistra potrà convivere “tranquillamente” nel partito della Nazione…). Seguiamo tutti con attenzione la proposta di Vannino Chiti circa nuove modalità di nomina dei Senatori, come pure il lavoro della commissione messa su per valutare le modifiche all’Italicum. Ci si domanda: ma perché non farlo prima? Perché far appesantire il clima interno, tra lo sconcerto dei militanti e simpatizzanti, proclamando a più riprese di non voler toccare questi due punti (Italicum e Senato appunto) che lasciano comunque più di un dubbio?
Forse non ci si doveva irrigidire per non apparire “cedevoli” alla minoranza; bisognava invece accogliere le significative domande e perplessità sui punti della Riforma, evidenziate anche da personalità della politica, della cultura, dello spettacolo che si sono pronunciate per il “sì”. Tanto più che si ripete, e a ragione, che si voterà sul merito della riforma, non sulla legge elettorale. Ma allora perché non discuterne prima? Si sarebbero potuti togliere molti alibi, volendo…L’unità del partito è un bene, non a qualsiasi costo (se ciò vuol dire snaturarlo), ma sbaglia chi crede che per un Pd che perdesse “altri pezzi” non cambierebbe nulla, in quanto verrebbero immediatamente rimpiazzati da altri; in tal caso sarà proprio la natura del partito ad essere diversa perché non rappresenterebbe più quelle grandi aspettative che l’unione tra il cattolicesimo democratico e la sinistra rifomista avrebbero potuto (e potrebbero ancora!) aprire all’Italia, con la nascita del Pd, per darle finalmente una prospettiva di crescita politica, sociale ed economica, nell’equità.
Significherebbe registrare un fallimento (personalmente, per quel che vale la mia opinione, non m’interesserebbe più); questo sì che sarebbe un dramma per il Paese! Chi rimarrebbe infatti? I “5 Stelle”, che non si capisce bene cosa vogliano, né quale idea abbiano di Paese, di Europa, del mondo? Suvvia!, Non facciamo del male alla nostra Italia!!
Gianni Amendola
N. B. : Ho scritto queste note ieri sabato 15/10; oggi leggo, domenica 16, l’editoriale di E. Scalfari su “la Repubblica” che rivela come lo stesso Renzi, in lungo colloquio telefonico avuto appunto col fondatore del quotidiano, ha rivelato che il Senato sarà elettivo (probabilmente la proposta di Chiti) e saranno abolite le preferenze; inoltre Scalfari ha sentito anche Cuperlo: la commissione incaricata per le modifiche all’Italicum redigerà un documento che verrà presentato alla Camera nel prossimo gennaio. Credo che se le cose andranno così dovremmo esserne contenti: il partito troverebbe una sua sostanziale unità, anche a prescindere dall’esito del referendum.
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