L’OSSERVATORIO.
Credo che misurare l’entità in termini percentuali della scissione del Pd sia un errore; dire che solo il 3% (finora) potrebbe seguire Bersani e gli altri può avere “effetto consolatorio”, ma non corrisponderebbe alla realtà. Perché se non una scissione vera e propria, certo un evidente distacco era (è) già in atto da tempo, da prima del 4 dicembre, nel popolo della sinistra che ha guardato (e spererebbe di guardare ancora) al Pd come riferimento appassionato. E ciò sia livello locale (anche qui ad Asti una scissione c’è stata) sia a livello generale; trattasi di quel popolo fatto di precariato, disoccupazione, impoverimento economico pur “con il posto fisso”, di coloro che si son forse sentiti traditi da chi alla fine non avrebbe confermato le speranze accese. Che altro possono significare infatti quel 70% dei giovani “under 35” o la stragrande maggioranza degli Insegnanti che han votato “No” al referendum, probabilmente volendo inviare “di proposito” un messaggio di profondo disincanto e di amarezza? E’ qui, tra questa ampia fascia di cittadinanza che non da ora si sta consumando una scissione “dal Pd”! C’entran poco D’Alema e Bersani , Speranza ed Orlando, Emiliano e Rossi.. Al di là delle singole storie e sensibilità costoro, di cui si possono anche non condividere alcune posizioni o la stessa idea di scindersi, hanno preso atto di quanto stava avvenendo; si può anche pensare (ed io sono tra quelli) che la scissione sia un male perché bisogna sempre lottare dal “di dentro”, ma è comunque, pur con qualche ambiguità, un scelta da rispettare e da non sottovalutare. Probabilmente Renzi ha sbagliato per eccesso di sicurezza: conscio che almeno finora la base del partito è in grande maggioranza con lui, come peraltro la gran parte dei Sindaci dei Comuni a guida Pd, ha creduto che l’avere i numeri dalla sua lo avrebbe messo al sicuro circa l’idea di riprendersi il partito (ed il Governo in ultima analisi, anticipando le elezioni), lasciando la minoranza al proprio destino (“mai una telefonata”, come ha sentenziato il fuori-onda del ministro Delrio) e con il fianco scoperto alle critiche ed all’amarezza dei tanti militanti e simpatizzanti. Ma ha commesso a mio avviso tre errori importanti: il primo, dopo l’affermazione di voler uscire dalla politica in caso di sconfitta referendaria, è quello dell’evidente rischio, appunto nel caso contrario, di esporsi alle critiche di un Di Maio qualsiasi; la qual cosa però, al di là dello scarso spessore dell’interlocutore (in un contesto generale però tuttora segnato da un profondo risentimento antipolitico), può avere ancora un certo peso elettorale negativo; il secondo è, una volta preso atto di chi è la “gente” che ha votato contro, non si può pensare di ricandidarsi senza una seria valutazione delle cause di tutto questo e l’individuazione dei correttivi non di facciata da apportare ad esempio a leggi contestatissime, quali la “Buona Scuola” o lo stesso “Jobs Act”. Il terzo, forse il più importante, è che avendo saltato ogni mediazione politica, sociale e culturale, la ovvia conseguente personalizzazione del referendum e di ogni atto del governo, ampiamente amplificati sui “media”, ha fatto sì che ogni riforma era “di Renzi” e poiché la situazione dopo 3 anni di governo si è certo mossa, ma non del tutto “cambiata verso”, tra disoccupazione, precariato, crisi economica, le urne sono diventate un’ordalia su di lui! Ecco perché l’idea, se non di un congresso quanto di una conferenza programmatica, prima che da Orlando sarebbe dovuta partire dallo stesso premier dimissionario, il quale avrebbe dato davvero un segnale forte di disponibilità, disinnescando la mina della scissione, pur rischiando di essere preso di mira dal fuoco della minoranza che gli avrebbe presentato il conto degli insuccessi (non dimentichiamo le ultime amministrative). Renzi probabilmente temeva in tal modo di ritrovarsi a dover fare un passo indietro, anche indicando un suo “fedelissimo” alla guida del partito; ma è prevalso in lui il timore che, una volta posta in discussione l’idea di rivedere lo Statuto nel punto riguardante il doppio ruolo di Segretario e Premier, che senz’altro la minoranza avrebbe presentato, si sarebbe trovato “senza un incarico”, come un militante qualsiasi, certamente “assai autorevole”, ma non più l’Uomo della rinascita del Pd e dell’Italia.. In ultima analisi, voleva (vuole) essere ancora lui a gestire questa fase politica del partito e del Paese; non potrebbe mai accettare (anche per “legittimo” orgoglio) l’idea che siano altri a farlo, anche se a lui vicino! Ecco perché ha ripetuto spesso alla minoranza: “Non potete chiedermi di rinunciare ad un sogno…”. Ora la speranza è che si svolgano “bene” le Primarie, con grande partecipazione di votanti, perché comunque farebbe bene al partito, poi che si parta con la conferenza programmatica, perché chiunque vinca si faccia carico di recuperare il consenso perduto, avendo al maturità d’animo di correggere quanto di sbagliato o di inadeguato c’è stato nell’azione del Governo precedente, dando più peso alle proposte che non agli annunci, rivalutando la mediazione sociale e culturale che è stata saltata al fine di privilegiare il “rapporto diretto” tra elettori e leader (dobbiamo dirlo, in questo “un po’ alla Berlusconi”..). La minoranza ora però abbassi i toni e trovi al più presto un unico candidato su cui far convergere le posizioni di tutti (presentarsi in 4 può dar idea di vivacità del partito, ma alla lunga non può durare). Se andrà avanti a colpi di reciproci risentimenti e di rivalse chiunque vinca avrà vita dura, a danno del Pd.
I VITALIZI DEI PARLAMENTARI.
I “5 Stelle” hanno presentato la loro proposta di parificare le modalità delle pensioni dei parlamentari a quelle di un comune cittadino, ribadendo a gran voce “bastano 20 minuti” per firmarla e renderla attiva. Ora, è dal 2012 che i parlamentari hanno visto tagliare diverse voci e le Camere diverse spese; certamente con le presidenze di Grasso e della Boldrini le cose sono progredite ancor più speditamente. Probabilmente c’è ancora non poco da fare, ma bisogna riconoscere che un clima sta cambiando. Come cittadini non dobbiamo abbassare la guardia, ma nemmeno nasconderci che la politica ha dei costi; il problema sta nell’unificare, o perlomeno di ridurne le differenze, le varie procedure ed i livelli dei rimborsi su base regionale, in quanto è ancora fresco il ricordo di coloro che in tal modo si sono costruite ricchezze smodate e proprio in un momento in cui la crisi iniziava a mordere pesantemente la carne viva del Paese. Esiste da oltre un anno la proposta di Richetti che i “5 Stelle” non hanno votato, preferendo come si vede una loro legge. Il perché è presto detto: se firmassero su questa materia una legge insieme con altri partiti, vorrebbe dire che nel Parlamento esistono forze responsabili ed affidabili; ma allora “per cosa” esisterebbero come Movimento? In altri termini, se si depotenziasse questo argomento dei vitalizi, nel senso di redigere finalmente una normativa seria, forse l’unico tema sul quale i “grillini” possono sperare di poter costruire un consenso elettorale ampio, che cosa resterebbe loro da dire, visto che su grosse questioni quali l’Europa, l’euro, i migranti, lo stato sociale latitano o farfugliano scemenze, quali il referendum sull’euro? Per loro è vitale, pena la loro insignificanza, tenere accesa la fiamma della polemica sui soldi ai politici da restituire ai cittadini…Del resto, perché non parlano mai di riforma fiscale? Forse perché andrebbero a toccare un tema che il loro leader (Grillo) non gradisce, dato che è stato evasore fiscale condonato proprio da Berlusconi nel 2005? E perché allora non chiedono al loro capo di restituire agli Italiani i soldi che sottratto alla fiscalità generale? Quante microimprese potrebbero finanziare con quei soldi? Perché non proporre loro stessi un “Restitution Day” con il recupero fiscale di Beppe Grillo? (Voglio doverosamente precisare, che se lui ha già restituito o sta restituendo quanto ha nascosto al fisco, gli chiedo infinitamente scusa, in quanto tali considerazioni cadrebbero immediatamente come un castello di carta; i Pentastellati però potrebbero dare notizie circostanziate e documentate al riguardo, se vi sono....). Ovvio che le domande fatte sono retoriche: significherebbero la morte definitiva del “movimento” e di tutte le speranze ed ambizioni personali di coloro che stanno costruendosi una carriera politica (a cominciare da Di Maio), già avviatasi con la benedizione del loro capo supremo che impone dall’alto i suoi diktat e stabilisce chi è degno di restare dentro il movimento stesso e chi no. E’ proprio di questi giorni la notizia che in tanti stanno fuoruscendosene, cercando accoglienza in altri partiti (paradossalmente proprio principalmente nel Pd) a livello locale (in Liguria per esempio, ma non solo), a motivo della scarsa democrazia interna. Ma se ne accorgono solo ora? Per aver accettato finora che un uomo solo (Grillo) decidesse linea politica, cosa dire e cosa fare o la nomina di un “direttorio” avvenuta senza coinvolgimento della base, quale idea di democrazia avevano costoro? Meglio tardi che mai, diremmo; ma Di Maio, Di Battista, la Lombardi che dicono? Lasciamo stare la Raggi: adesso che ha deciso di far costruire lo stadio della Roma (poi toccherà anche alla Lazio ovviamente..) i “5 Stelle” ne parlano con entusiasmo (ma quali infrastrutture vi saranno? La Regione Lazio è in vigile attesa..), sembrano aver risolto tutti i problemi.. Ma l’aspirante leader Di Maio qualche risposta deve ancora darla…O no?
Gianni Amendola